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Lia nei Celi coi diamanti

20 Marzo 2012

Intervista semiseria ad una maestra della risata italiana

Sarebbe bello raccontarvi che questa intervista con Lia Celi (la Magnifica) sia avvenuta ad un tavolino di un bar, guardandoci negli occhi e ridendo a vicenda delle nostre sciocchezze. Invece… Ma no, perché? Da anni il giornalismo ha smesso di occuparsi della verità, e dovrei farlo proprio io, in un articolo il cui stesso sottotitolo specifica la sua caratteristica di essere “semiserio”? No, non credo proprio! La sto aspettando seduto al tavolino di un bar di Rimini (di cui non so il nome e che non saprei descrivere, non essendoci mai stato), quando ecco che Lia arriva, già sorridente e ben predisposta al nostro incontro, povera ingenua. Un inizio comunque motivante per un giornalista inesperto come me. Mi alzo, le stringo la mano, e la faccio accomodare. Veloce arriva il cameriere che, con spiccato accento riminese (qualunque esso sia), ci chiede se vogliamo ordinare. Lia prende una coppa gigante di gelato con la panna, ed io, dovendo come minimo offrire, opto per un bel bicchiere di acqua di rubinetto. Giusto per pareggiare. Ma mentre continuo a sorridere, il portafoglio scalcia comunque nella tasca dei calzoni. Chiacchieriamo del più e del meno per circa venti minuti, quando Lia alza un sopracciglio e mi chiede: «Ma non dovresti prendere appunti o almeno registrare qualcosa?» Perdo i sensi per almeno quaranta secondi. Quando rinvengo, Lia è ancora lì, sorridente e paziente. Diciamolo: la classe non è acqua; più probabilmente è una coppa gigante di gelato con la panna. Iniziamo così la nostra intervista. Questa volta però, preferisco accendere il registratore (che non ho), per non perdere più una sola parola di ciò che dice.

Sei una battutista di fama nazionale, hai lavorato per la TV, per il teatro, per la radio e per più riviste di quante riesca a ricordare. Una mamma affettuosa e una donna piena di impegni. Ma sulla tua carta d’identità, sotto la voce “professione” cosa c’è scritto?

Ammesso che io sia veramente tutte quelle cose lì (posso mettere la mano sul fuoco solo per mamma e donna impegnata) sulla carta d’identità c’è scritto “giornalista”. Non volevo diventarlo, ma per essere assunta a Cuore come redattore ordinario, dopo diciotto mesi di praticantato ho dovuto sostenere l’esame di abilitazione al mitico Hotel Ergife di Roma. Ricordassi almeno una riga di quei tre libroni che mi sono dovuta studiare… Ricordo molto meglio la sintassi latina studiata per l’esame di Latino II all’università. Le proposizioni finali, ad esempio, si costruiscono con ut, quo ne o ne quis, più il congiuntivo…

Di tutti i lavori che hai svolto, qual è stato quello che ti ha lasciato di più in quanto a esperienza ed emozioni? E quale invece (se non è lo stesso) quello di cui vai più fiera?

Comincio da quello di cui vado più fiera: i cinque anni a Cuore, sei se includo quello in cui collaboravo da casa. Ovviamente il grosso delle mie esperienze ed emozioni viene da lì, il biennio ’91-’92 è stato di felicità perfetta, non scherzo: storicamente e professionalmente ero nel posto giusto al momento giusto, perché Cuore è stato un elemento importantissimo nel costume di quegli anni e nella trasformazione del linguaggio dei media. In più ridevo dal mattino alla sera, era come stare in una classe di liceo fatta solo di compagni intelligenti, di sinistra e divertentissimi. Forse solo in paradiso rivivrò una simile beatitudine. Detto questo, l’esperienza più istruttiva, considerata la durata limitata, è stata la collaborazione con il Pippo Chennedy Show (di Serena Dandini, Sabina Guzzanti e Neri Marcorè, NdR), nel ’96-97. Ho capito cos’è lavorare in televisione e cos’è la RAI, abbastanza bene da non farmi desiderare più di ripetere l’esperienza. Troppo casino, troppi isterismi e soprattutto troppi vincoli, specie per una che veniva da Cuore, dove la libertà era praticamente illimitata.

Quando hai capito (o deciso) che ti saresti dedicata a far ridere la gente, e che sarebbe potuto diventare un lavoro vero e proprio? C’erano delle aspettative su di te da parte dei tuoi cari?

Divertire la gente è sempre stata la mia massima aspirazione, fin da piccola, e credo che l’avrei fatto in qualunque mestiere avessi scelto. Le battute e le sciocchezze fanno parte di me, chi mi conosce nel privato lo sa. Se fossi diventata un’archeologa o una ricercatrice nel campo della Storia antica (il mio primo amore) sarei stata il tipo che fa ridere i colleghi. Se fossi diventata una prof. avrei cercato di far ridere i miei alunni. Se fossi diventata un avvocato internazionale, come sperava il mio papà, avrei detto cazzate in aula, col rischio di perdere tutte le cause: meno male che ho fatto una scelta diversa. Oppure è stato il Signore a darmi una mano, per convenienza: se l’umanità ancora non si è suicidata in massa forse è perché è sempre esistito chi l’aiutava a ridere sulle sue disgrazie. Sono orgogliosa di far parte, anche in penultima fila, dell’esercito di quelli che hanno dedicato la vita a far ridere e sorridere i loro simili, da Plauto a Woody, da Wodehouse a Ric e Gian.

Ogni giorno sforni decine di battute, ispirandoti alla tua vita privata, ma anche all’attualità. In base a cosa scegli le notizie da commentare? Ti poni mai dei limiti riguardo a ciò che scrivi?

Allora: si possono scegliere le notizie in base al contenuto (tipo: «Alitalia aveva messo in vendita vecchi aerei zeppi di amianto. Ryanair: “E senza uno straccio di sconto!”») oppure in base al modo buffo in cui la propongono i giornali, che per esigenze di brevità spesso usano forme sintetiche ma equivoche. Come quando c’erano i disordini a Londra e il TG de LA7 titolò: «Cameron: “Se necessario esercito nelle strade”», al che io chiosai con: «La Minetti: “Anch’io”».Quando la notizia è molto grossa, è imprescindibile il commento satirico, tipo: «È morto Lucio Dalla. Verrà sepolto nella retorica». A questo proposito, e a proposito di limiti, mi viene spesso rimproverata la tendenza a scherzare sulla morte, che secondo me è l’unica cosa su cui vale la pena scherzare, la grande comune buccia di banana su cui scivoliamo tutti. Se credi in Dio, a maggior ragione puoi scherzare sulla morte, perché sai che in realtà è una buffonata, e che dopo comincia il bello. Se non credi, dovresti riderne ugualmente perché è il destino di tutti e non c’è scampo: come scriveva Lucrezio, è successo a gente molto più grande e importante di te, e vorresti evitarla tu che non sei nessuno? Io faccio battute soprattutto sulla morte di persone importanti e famose, perché la loro non è una vera morte. Le celebrità, in un certo senso, muoiono meno degli altri, lasciando ricordi, opere, musica, libri che prolungano i limiti naturali della vita. Oppure faccio battute sugli eventi luttuosi in cui si può individuare un “cattivo” che diventa il vero bersaglio della battuta, tipo il soldato USA che a Kandahar massacra 16 persone, «aperta un’inchiesta sui motivi dello stupore». Non faccio mai battute sulle tragedie assurde e strazianti, come l’incidente del pullman belga in Svizzera. Ma credo che se ne trovassi una abbastanza buona da scrollarmi di dosso il senso di disperazione e di impotenza, la scriverei.Abbiamo il diritto di combattere la sofferenza fisica e morale che questo mondo ci infligge con le sue sciagure, la cui eco viene amplificata e moltiplicata dai mass-media fino a rintronarci. Mi rendo conto di dire qualcosa di sgradevole, ma stare male per un aereo che cade, una nave che affonda o un pullman che va a sbattere non serve a niente, tranne che a renderci più paurosi e ansiosi. Una cosa è perdere dei cari in un incidente, una cosa è soffrire perché immaginiamo cosa dev’essere stato. L’immaginazione va usata a fini più utili che procurarci emozioni posticce. Al di là dell’umana pietà e del rispetto per chi soffre sul serio, se si può è meglio razionalizzare, anche con una battuta. Ma è meglio tenerla per sé, per non sembrare cinici e irriguardosi.

Capita spesso, a chi scrive, che il messaggio recepito dai lettori sia diverso da quello desiderato. Ti ricordi qualche aneddoto divertente o particolare, legato a incomprensioni o equivoci sul tuo lavoro? O anche qualche aneddoto divertente punto-e-basta… Per la serie: “Facce ride’!”

Uhm… Di aneddoti divertenti non ne ricordo molti. Nel senso che quando i lettori recepiscono un messaggio diverso da quello che volevo trasmettere in genere significa che la prendono male, e mi è successo più di una volta. Caso strano, spesso in contesti che riguardano i motori, che qui in Italia sono la vera divinità intoccabile, altro che Chiesa. Anni fa avevo scritto sul mio blog (www.liaceli.com, NdR) una battuta su Valentino Rossi («Il dramma di Valentino: ha vinto sei mondiali ma sa contare solo fino a cinque») e sono stata sommersa di insulti. Ancora peggio quando ho scherzato sulla FIAT nel 2005: «Grande Punto, innovazione italiana: ha il giornalista leccaculo di serie». Nei commenti si andava dal “traditrice della patria” a “ti venga un cancro” e piacevolezze del genere.

Ogni tanto, mi capita di sfogliare dei diari Comix e di scovare qualche tua battuta, allora mi immagino come debba essere per la tua prole ritrovarsi con le freddure della mamma anche a scuola. Che rapporto hai con loro? Cosa pensano del tuo lavoro?

Quando mia figlia maggiore ha scoperto una mia battuta sui diari Comix dei suoi compagni sono cresciuta di mille punti nella sua stima. Sapeva che scrivevo satira, ma pensava che fosse una roba per adulti noiosi. Scoprire che potevo scrivere anche cose divertenti comprensibili dai suoi coetanei è stata per lei una piacevole sorpresa. Le mie ragazze sanno che rido per delle sciocchezze e mi prendono in giro per questo; del resto i miei figli sono anche fra le poche persone che sanno veramente farmi ridere. Abituata a cercare di far ridere in modo intelligente, io rido soprattutto con le bambinate, l’umorismo da asilo, quello che ti prende alla sprovvista o, per dirla alla Bergson, quello che fa cagare. L’ingenuità, vera o ben riprodotta, è un fondamentale propellente per la risata.

In occasione del Biografilm Festival 2011 a Bologna, hai parlato della satira come di una “mini arte marziale personale, a disposizione di tutti, per difenderci dall’aggressione ansiogena dei media”. Ti va di spiegarmi meglio cosa intendevi? Qual è il mezzo d’informazione da cui, secondo te, bisogna difendersi di più?

Credo che ognuno di noi potrebbe, con un po’ di esercizio, imparare a fare battute come quelle che tu, io e altri mettiamo su Twitter, e che ci aiutano, me lo confermerai, a reagire alla valanga di notizie ansiogene che i media ci scaricano addosso. Quarant’anni fa c’erano due o tre TG al giorno, oggi ce ne sono centinaia, più gli approfondimenti, ad ogni ora del giorno, tutti gridati, enfatici, tutti che puntano più alla pancia che al cervello: l’obiettivo non è informarti, ma emozionarti. E questa secondo me è violenza psicologica bella e buona.Se, con l’uso ragionato e strategico della retorica (in fondo l’umorismo si basa su poche figure retoriche individuate più di duemila anni fa: analogia, metonimia, litote, ecc.) trasformi la notizia ansiogena in sberleffo, la ridimensioni, non ne sei più sopraffatto, e puoi ricominciare a pensare. Ovviamente il mezzo più invadente e dal linguaggio più violento è la tivù, ma anche i giornali hanno mutuato quei toni da forsennati, fino a certi inqualificabili titoli di Libero o del Giornale.

Proprio su Twitter, forse più che in passato, la satira ha assunto quel ruolo di cui parlavi: uno strumento alla portata di tutti (chi più, chi meno) per difendersi dalle notizie con cui veniamo bombardati. Pensi che in un paese come l’Italia, che non è sotto una dittatura come potevano essere i paesi della Primavera Araba, il tweet possa fare la sua parte nel cambiare il modo di pensare della gente, o è solo un’illusione legata alla moda e al successo del momento?

Prima di twittare le mie battute, le postavo solo su Facebook. A dirla tutta, fino a un paio d’anni fa la satira a battute tipo Spinoza.it non mi convinceva. Io venivo da progetti come Cuore o il portale Clarence, più «totalizzanti», in cui la battuta (che adoro) era solo una cellula-base che andava aggregata in organismi più complessi, cioè pezzi più o meno lunghi. La satira «monocellulare» mi sembrava destinata a vita breve, come le amebe e i parameci. E in effetti è proprio così: per questo il mezzo più adatto per diffonderla è Twitter, che sembra fatto su misura per diffondere le battute, 140 caratteri che in pochi secondi rimbalzano dappertutto. Agli italiani twittare fa bene perché insegna loro la brevità e la concisione, che non sono qualità così diffuse e coltivate da noi. Sicuramente Twitter è anche una moda e sta vivendo il suo periodo di massimo fulgore, come social network, ma quel che verrà dopo non potrà non tenere conto della sua “eredità”.

Come sai, anche io mi sto avvicinando, da profano, al mondo della comicità e della satira, ma la strada è lunga e piena di scivoloni. Quali consigli ti sentiresti di dare a un ragazzo (o ragazza) che oggi sogna di scrivere, di essere pubblicato e di poter vivere con un lavoro come questo? Intendo a parte quello di cambiare sogno, ovviamente!

L’unica cosa che consiglio è esercitarsi continuamente nelle battute, non solo scrivendole ma soprattutto leggendo e studiando i migliori umoristi, da Groucho Marx a Woody, da Marcello Marchesi a Campanile, dal grandissimissimo Benni a Serra, ai vignettisti come Altan ed Ellekappa; per quanto mi riguarda, ci metto anche Gianni Rodari, che fin da piccola mi ha insegnato a giocare con le parole (come sai, è la mia debolezza…) Se sei bravo e grazie alla rete puoi far conoscer il tuo materiale, le occasioni di lavoro arrivano, prima o poi. I battutisti più bravi in questo momento in Italia sono quelli di Spinoza.it, non c’è lotta. Hanno creato uno stile. Io ho i loro due libri e ne leggo una paginetta ogni sera, cercando di smontare le battute per studiare il meccanismo. E trovo sempre qualcosa da imparare.

Per la donna, il lavoro è ancora un problema presente, di cui si è discusso molto anche recentemente. La comicità e la satira sono entrambi campi in cui, forse ancora più che in altri, il numero di donne è davvero esiguo. Mi racconti un po’ la tua esperienza e le tue idee a riguardo? Hai mai incontrato sul lavoro difficoltà legate esclusivamente al fatto che sei una donna?

Io quando scrivo mi dimentico di essere una donna, penso solo a far ridere. Anche i miei lettori hanno smesso da tempo di sorprendersi del fatto che, “malgrado” sia una femmina, io sappia far ridere. I veri problemi per una donna che fa il mio mestiere è inserirsi in un mondo del lavoro che, più di altri, ha ritmi adatti a chi non ha responsabilità in famiglia: se fai l’autore televisivo non devi avere orari, per tre o quattro giorni per coniuge e figli non esisti. Tant’è vero che, se in tivù si vedono sempre più donne comiche, gli autori dei loro testi sono in genere solo maschi. Per una donna è più agevole essere la star comica di un programma (quindi con un potere contrattuale anche sugli orari di lavoro) che l’autrice dei copioni, che deve essere sempre a disposizione e quindi non deve avere bambini da accompagnare in palestra, o che si ammalano. Detto questo, io ho anche un altro grosso handicap: abito in provincia, a Rimini, mentre per diventare veramente famoso e lavorare tanto bisogna orbitare intorno a Roma o a Milano, cosa che non ho alcuna intenzione di fare. Viva la provincia!

A questo punto, noto che Lia inizia a scrutare l’orologio sempre più spesso, a guardarsi intorno, e a sbuffare annoiata; così cerco di non metterla in imbarazzo, intuendo ciò che non dice: “Lia ti andrebbe di raccontarmi tutti i tuoi ultimi vent’anni, minuto per minuto?” Scoppia a ridere istericamente, si alza, e se ne va con le mani nei capelli. Devo imparare a interpretare meglio il linguaggio del corpo, non c’è dubbio… E comunque, non andate in quel bar sconosciuto di Rimini: il gelato di Lia l’hanno offerto loro, ma a me hanno fatto pagare l’acqua di rubinetto!

NOTA: Ringrazio Lia Celi per la paziente collaborazione, per l’entusiasmo dimostrato in questa mia piccola idea, e per le sue esaustive risposte. Mi scuso inoltre con lei, per aver fantasticato non poco sull’intervista, che nella realtà si è svolta interamente tramite posta elettronica.

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