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“Il diritto di opporsi” o semplicemente pietà

21 Gennaio 2020

È la seconda volta nello stesso mese che vengo piacevolmente sorpreso da un film. Settimana scorsa è successo con Richard Jewell, ieri con l’anteprima stampa de Il diritto di opporsi di Destin Daniel Cretton in uscita nelle sale italiane il 30 gennaio. Ad accomunare i due film c’è che siano tratti entrambi da storie vere, con protagonisti due accusati ingiustamente, ma le somiglianze finiscono qui. Se il primo è di un regista di destra (Eastwood) e tratta la storia di un fascistoide fanatico di armi e forze dell’ordine, Cretton, al suo quarto lungometraggio, ci narra la drammatica vita di un uomo di colore condannato alla pena di morte solo sulle basi del pregiudizio e della razza.

La trama è tanto semplice quanto potente, in quel particolare modo in cui solo le storie vere sanno esserlo: il giovane avvocato nero Bryan Stevenson (Michael B. Jordan), fresco di laurea ad Harvard, rinuncia ad una carriera redditizia per lavorare per lo più pro bono in difesa dei condannati a morte in Alabama, molti dei quali non hanno beneficiato di un regolare processo. Qui trova una valida e fidata alleata in Eva Ansley (Brie Larson), avvocatessa bianca dai saldi principi, con cui fonda l’organizzazione no-profit, Equal Justice Initiative. Insieme si imbattono nel caso di Walter McMillian (Jamie Foxx), che nel 1987 era stato condannato a morte per l’efferato omicidio di una diciottenne bianca, nonostante le prove e le testimonianze dimostrassero la sua innocenza, con un’unica testimonianza contro di lui, quella di un criminale convinto a mentire per convenienza.

«Basta guardarlo in faccia!» è l’unica prova di cui hanno bisogno le autorità dell’Alabama per trascurare tutte le altre e le testimonianze della comunità nera in cui vive McMillian, “comprando” invece quella di un criminale bianco (evidentemente più rispettabile e credibile di tanti innocenti neri) a sua volta maltrattato e abusato dalle forze dell’ordine. Perché l’Alabama degli anni ’90 raccontato nel film ricorda tanto storie di decenni prima e di cappucci bianchi: la continua umiliazione degli afroamericani, il fermo ingiustificato, le mortificanti perquisizioni da parte della polizia yankee… È il ritratto di un’America che purtroppo non ha ancora oggi smesso di tollerare questo tipo di disparità e di ingiustizia.

Negli anni che seguono, Bryan Stevenson si ritroverà (nel film come nella realtà) in un labirinto di manovre legali e politiche, di razzismo palese e sfacciato, mentre combatte per Walter e tanti altri come lui, con tutte le probabilità e il sistema contro.

Nel mirino di Cretton c’è anche la pena di morte, narrata e denunciata magistralmente da una lunga e terribile sequenza che mostra tutta la lucida spietatezza e la follia che c’è dietro all’esecuzione di un essere umano. Impressionanti anche i numeri tra i titoli di coda: ogni nove condannati a morte c’è un innocente che riesce a dimostrare la propria non colpevolezza prima dell’esecuzione. Una percentuale impressionante che pone altissimi dubbi sulla qualità e la correttezza dei processi.

Interpretazioni eccezionali sia da parte del “veterano” Jamie Foxx nei panni di Walter McMillian, ormai spezzato dal sistema e scettico sulle proprie possibilità di salvezza, che da quelle di Michael B. Jordan in quelli dell’indomito avvocato Bryan Stevenson, che ricorda in qualche modo quell’Atticus Finch che combatté la stessa battaglia nel libro Il buio oltre la siepe (di Harper Lee) e nell’omonima pellicola in cui venne interpretato da Gregory Peck, venendo giudicato il più grande eroe del cinema americano dall’American Film Institute. E se, come si dice nella pellicola, «la mancanza di speranza è il peggior nemico della giustizia», il fatto che oggi Atticus Finch possa essere egli stesso nero può considerarsi un valido incoraggiamento alla comunità afroamericana.

Il diritto di opporsi è un film che va visto, che commuove e che richiede alcune ore per essere digerito. Forse, l’unica cosa che proprio non va giù, è l’incomprensibile bisogno (?) di stravolgere il titolo che nell’originale Just mercy, “semplicemente pietà”, aveva un retrogusto più amaro e più potente e in linea con la pellicola.

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