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Cinque minuti

Cinque minuti. Il tempo di un caffè. La pausa per il pranzo. Un bambino che nasce. Una chiacchierata al telefono. Un goal all’ultimo momento. Una sigaretta. Una gioia. Un dolore. Quante cose è possibile fare in cinque minuti?

A qualcuno piace pensare che un minuto sia molto lungo, che l’attesa di tale tempo sia terrificante, insopportabile. Qualcun altro, qualcuno come me, preferirebbe dover aspettare di più. Ma ciò che dicono quelli nel mio stato, non conta mai molto.

Vi prego di scusarmi, ma non sono mai stato bravo a parlare, quindi figuratevi a scrivere. Eppure, anche se non ho più preso in mano una penna da quando uscii dalla terza media, con un calcio nel sedere, oggi ho sentito l’irrefrenabile desiderio di trasmettere i miei sentimenti. Non mi importa che fine farà questo documento, forse verrà buttato via nello stesso cestino dove ora vedo una lattina di birra vuota e stritolata, ma appena ho avvistato la penna di mia figlia sul tavolo, ho sentito il bisogno di sedermi e provarci. Dovevo provare a raccontarvi…

Era il 15 novembre dell’anno scorso. Ero andato a fare una visita dal dottore per il lavoro. Niente di importante, sapevo di stare bene. Lavoravo da vent’anni per quell’impresa di costruzioni e ogni anno dovevo sorbirmi una visita medica. Un operaio non può certo permettersi di disobbedire al proprio capo e, come soleva dirmi mia moglie, fare qualche controllo ogni tanto non poteva farmi che bene.

Mia moglie era sempre stata una donna molto intelligente. Ricordo ancora quando la vidi per la prima volta. I suoi lunghi capelli ricci sulle spalle, quel paio di occhialetti a forma di mezza luna che porta ancora, la camicetta con le maniche arrotolate e quel passo svelto che mi fece temere per qualche istante che non avrei fatto in tempo a raggiungerla e a conoscerla. I suoi occhi, di un verde smeraldo quasi ipnotizzante, le sue mani, così dolci e delicate, le sue gambe lisce e slanciate. Ricordo tutto nei minimi dettagli. Ora Marta è invecchiata, come me del resto, ma è una donna ancora molto attraente e la amo in modo smisurato. Non sopporto il pensiero che soffrirà a causa mia. Quel giorno, però, si era sbagliata.

Quella visita di controllo non mi avrebbe giovato per nulla. Avevo finito gli esami ed ero seduto nella sala di attesa, nella vana speranza di vedere arrivare il medico o l’infermiera a portarmi i risultati che avrei dovuto consegnare in ditta. Se avessi saputo di dover aspettare altri cinque minuti, sarei uscito a fumarmi una Malboro, ma non potevo rischiare che il dottore arrivasse mentre io non c’ero. Quando il medico mi raggiunse, parve strano. Non aveva il solito sorriso cortese con cui mi riconsegnava i test tutti gli anni. La sua faccia velava qualcosa di sinistro. Improvvisamente, per la prima volta dopo non so quanto tempo, sentii colarmi delle gocce giù dalle guance. Mi misi a piangere come un bambino e il dottore mi abbracciò in una stretta paterna.

Un anno, mi dissero, forse meno. Cancro ai polmoni, probabilmente causato dalle sigarette. Le mie figlie avevano insistito tanto perché smettessi, ma giunto alla mia età ero sicuro che fosse impossibile cessare di fumare. Tra l’altro quando si sentono i TG che informano del pericolo del fumo, il problema sembra così lontano… così improbabile…

Lisa e Paola sono forse il mio tesoro più grande. Le mie bambine. Per colpa mia, della mia stupidità, dovranno crescere senza un padre, senza una figura maschile che le aiuti nei momenti più difficili. Quando nacquero fu una sorpresa inaspettata. Né io né Marta ci aspettavamo due gemelle e inizialmente fui molto preoccupato per le nostre risorse economiche, ma quando le vidi, dietro il vetro, nelle due culle una di fianco all’altra… scoppiai in lacrime, lacrime di gioia. Quella era stata l’ultima volta che avevo pianto, prima di quel fatidico giorno. L’ultima volta che avrei pianto per felicità.

Ero inoperabile e mi dissero che l’unica cosa che potevo fare era prendere qualche farmaco, smettere di fumare e ricominciare ad andare in chiesa. Ormai è passato un anno. Un anno sono molti “cinque minuti” messi insieme, ma mai abbastanza per un malato terminale. Una persona più giovane forse avrebbe sfruttato al massimo il tempo che gli rimaneva, non avrebbe voluto perdersi nemmeno pochi secondi, ma un uomo di sessant’anni come me… Ho perso il lavoro, ho smesso di andare al bowling, ho abbandonato gli amici del pub e mi sono rintanato in casa ad aspettare la fine. Ad aspettare i miei ultimi cinque minuti.

È ormai tempo. Un malato, un uomo che deve morire, lo sente. Manca poco. Non so cosa ci sia dopo la morte e ho una paura enorme. A volte rimpiango di non essere un fedele, di aver smesso di credere in Cristo. Forse lui mi avrebbe dato delle risposte, forse ora sarei più calmo. Mia moglie è al lavoro. Le mie figlie sono in università. Morirò solo.

Solo con una penna in mano e una sigaretta in bocca. La mia ultima sigaretta. I miei ultimi cinque minuti…

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